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Capriccio architettonico romano del XVIII secolo attribuito a Francesco Chiarottini
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Francesco Chiarottini (1748-1796)
Capriccio architettonico romano
Olio su vetro, cm 52 x 67 senza cornice, 63,5 x 79 cm con cornice
Il prezioso dipinto, attribuito al pittore italiano Francesco Chiarottini e realizzato con olio su vetro, rappresenta un capriccio architettonico, ovvero una fantasia architettonica ottenuta mettendo insieme edifici, rovine archeologiche e altri elementi architettonici in combinazioni immaginarie e con elementi irreali ma plausibili. Nel lavoro qui proposto è possibile distinguere diversi monumenti antichi esistenti a Roma. Sulla destra, al secondo piano, puoi vedere il Tempio di San Pietro in Montorio, mentre sul lato opposto, un arco di trionfo, ripetuto in lontananza, sembra essere ispirato all'Arco di Costantino. Dietro l'arco più lontano è chiaramente identificabile il Colosseo. Al centro si trova un imponente obelisco, anch'esso vicino ai tanti che spiccano nelle grandi piazze romane.
Tutt'intorno molti altri edifici di gusto classico, rovine di templi romani, una grande cisterna di porfido, un tempio con un sarcofago imperiale sorretto da telamoni, scalinate ed edifici rinascimentali sono liberamente ispirati all'architettura presente nella città eterna. Tra gli edifici e le rovine diversi personaggi animano la composizione: sono raffigurati, alcuni seduti altri in piedi, intenti a camminare e a parlare tra loro.
Il pittore utilizza una tecnica insolita e molto complessa, ovvero la pittura su vetro, che richiede abilità artistiche fuori dal comune. L'esecuzione deve infatti prevedere come prima bozza i punti salienti e i dettagli in primo piano per poi procedere nella realizzazione delle parti in secondo piano e quindi degli sfondi. L'artista deve quindi dipingere con un processo inverso a quello più comunemente utilizzato per un olio su tela. Le prime opere di pittura su vetro risalgono alla fine del XVII secolo e si diffusero, nel corso del Settecento, soprattutto nelle raffinate committenze dell'area veneziana e napoletana. I soggetti raffigurati erano spesso tratti, come modelli di riferimento, da stampe e incisioni che potevano circolare facilmente.
L'opera oggetto di questo studio è chiaramente ispirata a un'incisione tratta da un'opera, probabilmente un disegno, di Giuseppe Galli Bibiena.
La stampa dell'incisione sembra rispecchiare l'immagine del nostro dipinto. Poi, una volta realizzato, l'incisore doveva possedere un disegno o un dipinto sovrapponibile al nostro lavoro. La stessa immagine a cui il nostro autore ha quindi guardato, simile a uno dei tanti disegni sopravvissuti, di cui si riporta un esempio significativo.
C'è un altro dipinto a olio su vetro, anch'esso attribuito a Francesco Chiarottini e raffigurante un capriccio architettonico con il Monumento dei Quattro Mori di Livorno, il Pantheon e altri edifici classici e moderni. Le misure delle due opere sono le stesse.
È quindi probabile che siano nati in coppia o forse accompagnati da altre opere.
Anche la seconda opera è certamente ispirata a un'incisione di Giuseppe Galli Bibiena, intitolata Templi e Regia.
I Galli da Bibbiena o Bibiena erano una famiglia di artisti, originaria di Bibbiena, oggi in provincia di Arezzo, attiva in campo artistico da oltre 150 anni, prima a livello locale e poi su scala europea. I suoi componenti si occupavano di pittura, architettura e scenografia ed erano molto richiesti dalle corti di mezza Europa.
Giuseppe Galli da Bibiena (Parma, 5 gennaio 1696, 1757), secondogenito di Ferdinando Galli da Bibiena, raggiunse la fama del padre e divenne il più noto tra i Bibbiena della sua generazione. Giuseppe lascia una copiosa collezione di disegni e incisioni delle sue opere. Una delle più importanti raccolte dei suoi disegni-studio è pubblicata da lui stesso a Roma, sotto la direzione di Andrea Pfeffel nel 1740-1744, con il titolo Architetture e prospettive dedicate alla Maestà di Carlo Sesto Imperatore dei Romani da Giuseppe Galli Bibiena, il suo primo ingegnere teatrale e architetto, inventore dello stesso.
Le stampe delle incisioni di Bibiena hanno avuto una fortuna diversa. Tra i molti artisti che accolsero la loro lezione, traendone ispirazione per la disposizione e i soggetti delle loro opere, c'è Francesco Chiarottini (1748-1796). L'uso costante dell'incisione per le proposte iconografiche e come ausilio all'impaginazione fu fondamentale per Chiarottini nella sua specializzazione in pittura prospettica e nel mondo della scenografia.
Francesco Chiarottini nacque a Cividale del Friuli, in Italia, il 29 gennaio 1748 da Giobatta e Domenica Dini. Nel 1760 si trasferì a Venezia per perfezionare la sua vocazione pittorica. Rimase nella città lagunare fino al 1773 e divenne allievo di Guarana, Maggiotto, Fossati e Giandomenico Tiepolo. Dopo un breve soggiorno a Udine dove impara con Giuseppe Morelli la tecnica dell'affresco, per la quale si specializzerà, si reca a Bologna, entrando in contatto con i modi scenici di Bibbiena, poi a Firenze, Napoli e Roma (1780-1782) dove incontra gli esponenti del neoclassicismo, tra cui Antonio Canova.
Nel 1782 tornò in patria con un linguaggio più maturo che si ricollegava alla lezione del Tiepolo con stimoli scenografici e preliminari "rovinistici" sull'esempio di Bibbiena, Panini e Piranesi. Opera a Gorizia, Trieste e Cividale: qui affresca lo scalone e le sale del Palazzo Pontotti, oggi Brosadola. Queste opere rivelano una nuova libertà inventiva, esaltata dal dominio degli spazi e dalla perfetta armonia delle figure con l'ambiente. Nel 1786 l'Accademia di Belle Arti di Firenze lo nominò professore honoris causa e l'anno successivo fu accolto all'Accademia Clementina di Bologna. In seguito, Chiarottini dipinse scene teatrali, prima a Bologna e poi a Roma. Si ammalò e cominciò a dare i primi segni di pazzia, che lo costrinsero a ritirarsi nella sua Cividale dove morì il 14 aprile 1796, circa 1791.
Il nobile tentativo di conciliare le esigenze della pittura decorativa, di estrazione settecentesca, con il credo neoclassico, nutrito di sollecitazioni ellenistiche e nostalgie archeologiche, è una caratteristica comune delle sue opere. In alcune c'è un accento vagante più vicino alla lezione di Panini o Piranesi, mentre in altre opere l'aspetto scenografico e la proiezione neoclassica, vicina al Galli di Bibiena, sono più pronunciati.
L'opera oggetto di questo studio e il suo pendant, possono essere attribuiti a Franceso Chiarottini; come visto, l'autore utilizza Bibiena per proporre uno scenario architettonico le cui parti sono state da lui ripetutamente indagate e proposte.
Ci scusiamo per eventuali errori di traduzione dall'italiano.
- Dimensioni:Altezza: 79 cm (31,11 in)Larghezza: 64 cm (25,2 in)Profondità: 6 cm (2,37 in)
- Stile:Neoclassico (Del periodo)
- Materiali e tecniche:
- Luogo di origine:
- Periodo:
- Data di produzione:Metà del 18° secolo
- Condizioni:
- Località del venditore:IT
- Numero di riferimento:1stDibs: LU4405218944272
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The painting i...
Categoria
Di antiquariato/d’epoca, XVIII secolo, Olandese, Barocco, Dipinti
Materiali
Tela
Alberto Carlieri, Pittura con Capriccio Architettonico
Di Alberto Carlieri
Alberto Carlieri (Roma 1672-1720)
"Capriccio architettonico con la predicazione di San Paolo nell'Areopago di Atene"
Olio su tela, misure con cornice L 172 x H 127 x P 10,5 (solo tela cm L 135 x H 99)
Il grande e interessantissimo dipinto a olio su tela raffigura un capriccio architettonico con la predicazione di San Paolo nell'Areopago di Atene. L'opera è attribuibile al famoso pittore italiano Alberto Carlieri (Roma 1672-1720).
La composizione è caratteristica dell'espressione artistica di Carlieri. Il soggetto raffigurato, ovvero La predica di San Paolo, è ambientato tra potenti resti architettonici di fantasia, chiamati "Capriccio architettonico". Il capriccio architettonico, un genere artistico che si è fatto strada nella pittura italiana a partire dal XVII secolo, è caratterizzato dalla rappresentazione di architetture fantastiche o invenzioni di tipo prospettico, talvolta combinate con elementi tratti liberamente dalla realtà.
La tela in questione ha un notevole interesse artistico e una qualità pittorica significativa. La spettacolare architettura d'invenzione conferisce una solenne classicità al luogo, amplificata dai giochi di luce e ombra, che fungono da teatro e da cornice alla scena.
In primo piano, un colonnato parzialmente crollato emerge dall'ombra sulla destra, mentre sulla sinistra sono accatastate a terra parti di colonne tra cui un capitello di ordine corinzio. I personaggi sono al centro della tela, sullo sfondo.
Tutto intorno sono descritti i resti di edifici classici, caratterizzati da uno stile composito, colonne lisce, capitelli corinzi, trabeazione con metope e fregi dorici. A destra c'è un sepolcro e ancora oltre un grande vaso di marmo scolpito con bassorilievi. A chiudere l'ambiente architettonico c'è un possente edificio con arco e grande arco, bassorilievo con soldati romani, pilastri e colonne composite. Il verde ha raggiunto il suo massimo splendore, dando un aspetto pittoresco alla tela. Il paesaggio sfuma fino all'orizzonte, dove puoi vedere una baia, il mare e un promontorio descritto con toni blu. Il cielo limpido e azzurro è caratterizzato da nuvole soffici e grigie di colore rosa.
La scena descritta è il sermone di San Paolo nell'Areopago di Atene. San Paolo è chiaramente riconoscibile per alcuni elementi che appartengono alla sua iconografia tradizionale: raffigurato calvo, con una lunga barba e una forma allungata, indossa una tunica verde con un mantello rosso e impugna, qui con la mano sinistra, una spada con una punta a terra. La spada, simbolo di potere, ha una doppia interpretazione: allude sia alla decollazione, o al martirio di San Paolo, sia al potere della fede e della proclamazione della parola divina. Infatti, Paolo parlò ai gentili, i popoli di cultura greco-latina, considerati pagani dagli ebrei, della "spada dello Spirito, cioè la parola di Dio" (Ef. 6:17). La spada fa parte dell'armatura spirituale che Paolo dice di indossare per poter combattere efficacemente il male.
La scena è ispirata al momento in cui Paolo tiene un discorso ad Atene all'Areopago (in Atti 17:16-34). È uno dei momenti più drammatici e dettagliati della carriera missionaria di San Paolo.
L'Apostolo aveva incontrato opposizione nella sua predicazione a Tessalonica e a Berea, nel nord della Grecia e, tra la fine del 49 e l'inizio del 50, si recò ad Atene per mettersi al sicuro. Afflitto nel vedere Atene piena di idoli, Paolo si reca all'Areopago, l'alto tribunale di Atene, per spiegare ciò che sostiene. "Areopago" significa letteralmente "Roccia di Ares"; era un luogo in cui sorgevano templi, strutture culturali ed era l'alta corte della città. Il discorso di Paolo si basa su cinque punti principali: l'ignoranza dell'adorazione pagana; l'oggetto dell'adorazione è l'unico Dio Creatore; la relazione di Dio con l'umanità; gli idoli d'oro, d'argento e di pietra come oggetti di falsa adorazione; e per concludere, è ora di porre fine all'ignoranza. Questo discorso è uno dei primi tentativi di spiegare la natura di Cristo ed è un primo passo nel percorso che porta allo sviluppo della cristologia.
L'opera, dipinta con grande finezza anche nei dettagli e nelle piccole figurine, è sicuramente attribuibile all'importante pittore romano Alberto Carlieri (Roma, 1672 - 1720) perché si possono trovare motivi stilistici comuni alle sue opere. Elementi caratteristici sono le suggestive disposizioni compositive e la notevole maestria nella direzione delle luci, così come la ricchezza dell'architettura e i raffinati, quanto minuziosi, dettagli descrittivi. Peculiare dell'autore è anche l'atteggiamento vivace delle figure, risolte con disinvoltura nell'uso del colore e inserite armoniosamente nell'architettura.
Carlieri nacque a Roma nel 1672 e iniziò a studiare la pittura di architettura sotto la guida di Giuseppe de Marchis. An He divenne allievo e poi collaboratore di Andrea Pozzo. Presente nei più illustri dipinti romani...
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