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Matteo GhidoniDi Matteo Ghidoni, Quattro Pitocchi
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Matteo Ghidoni (1626-1689)
Quattro pitocchi
(4) Olio su tela, cm 26 x 18
Con cornice, cm 40 x 32
Il Seicento è un secolo caratterizzato da diversi fattori di crisi: le carestie dei primi decenni, la disastrosa Guerra dei Trent’Anni, le ricorrenti pestilenze, fra cui quella che investì l’intero continente tra il 1661 e il 1668, il conseguente crollo demografico. In conseguenza di ciò, le scene di povertà costituiscono un soggetto consueto in quel momento storico. Poiché la povertà costituiva un aspetto drammaticamente evidente del quotidiano e l’oggetto di una nuova sensibilità religiosa, la “pittura di genere”, che in Italia, così come a nord delle Alpi, si afferma nel corso del Seicento, si rivolge in particolare alla rappresentazione dei poveri, dei cosiddetti “pitocchi” (dal greco ptokós, “mendico”, “indigente”). Il pitocco è il povero mendicante, che vive ai margini del tessuto sociale: l’arte che lo ritrae segna un distacco dai tradizionali soggetti religiosi e mitologici ed esprime un’innovativa ed inedita attenzione verso la realtà sociale del tempo, spesso accompagnata da uno sguardo pietoso e, in casi come questo, da una buona dose di satira ed ironia. La rappresentazione della povertà e dell’indigenza, prima di diffondersi in ambito artistico, interessò la letteratura: ci basti pensare al romanzo picaresco El Lazarillo de Tormes – testo anonimo spagnolo edito a Burgos nel 1554, storia del terribile apprendistato di un ragazzo di strada presso un pitocco avido e violento – o all’Ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Cervantes pubblicato in due tempi, tra il 1605 e il 1615, con le vicende ben note di un nobile decaduto spagnolo, ridotto a un vagabondaggio allucinato, alla ricerca di un mondo perduto, quello della cavalleria. Al fenomeno contribuì certamente la nascita e la diffusione straordinaria che ebbe la Commedia dell’arte, con i suoi personaggi caricaturali ed eccessivi che mettono in scena vizi, virtù ed atteggiamenti dei membri degli strati più bassi della società. La letteratura conferiva a questo tema un’inedita nobiltà di rappresentazione, che catalizzò così l’interesse degli artisti del tempo. Tra le evidenze della realtà quotidiana e le elaborazioni letterarie, i pittori italiani si accostarono alle icone dei pitocchi come a personaggi degni di rappresentazione. La loro azione si sviluppò in direzione della pittura di genere, nel confronto con i fiamminghi, e nell’esplorazione pittorica della povertà compiuta da Jusepe de Ribera, che probabilmente soggiornò non solo a Napoli ma anche in Emilia e in Lombardia nel 1611. Frattanto, dalla Francia giungevano prima le suggestioni di Callot – determinanti furono le sue incisioni picaresche, nell’ambito della diffusione del genere – e successivamente quelle derivanti dalle opere dei fratelli Le Nain. Nell’ambito della pittura di genere, possiamo identificare due diversi filoni espressivi: il primo, entro cui si incanalano le opere di un vasto contingente di artisti attivi tra Veneto e Lombardia, che si rivela collegato alla letteratura dell’epoca e che si presenta come libera interpretazione delle azioni furbesche dei poveri e dei vagabondi, caratterizzati da un certa deformazione grottesca – si pensi, nell’area lombarda, all’azione svolta da Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini (Feldkirch, Austria 1664 – Milano 1736) e dal bergamasco Antonio Cifrondi (1656-1730) –; il secondo filone, con il quale si matura il concetto di pittura di realtà, è rappresentato in modo eccelso dalle opere del milanese Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, che operò a lungo tra Brescia e il Veneto: Ceruti lesse le vicende dei poveri in direzione di un racconto che teneva conto delle nuove istanze caritative, assegnando ai soggetti una profonda dignità, come dimostrano, tra gli altri, gli straordinari dipinti attualmente conservati alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.
Appartenenti certamente al filone maggiormente grottesco e burlesco della rappresentazione dei pitocchi sono queste quattro piccole tele ascrivibili al pennello del veneto Matteo Ghidoni, maggiormente conosciuto come Matteo dei Pitocchi. Nato probabilmente a Firenze (così come ricorda Mina Gregori nel 1961, non esiste alcuna fonte letteraria che ci permetta di ricostruire in maniera certa la sua biografia) ma attivo principalmente a Padova, l’artista guarda ai modelli forniti dalle stampe di Callot o dalle scene di genere dei fiamminghi operativi attorno alla metà del Seicento in Italia. Le opere dell’artista si contraddistinguono per i colori intensi e terrei e per una tecnica rapida e corsiva. Il registro cromatico è povero e bituminoso e la materia è corposa. I quattro dipinti in questione, a causa delle analogie con alcuni dei brani giovanili della produzione dell’artista, con particolare riferimento al Mendicante che si scalda le mani della Pinacoteca Querini Stampalia di Venezia (presso la medesima istituzione, dello stesso artista è conservato anche La rivolta dei contadini, dipinto in grado di mostrare appieno la capacità del Ghidoni di gestire anche le scene corali), potrebbero essere datati tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 del ‘600. Negli inventari seicenteschi e settecenteschi delle collezioni private veneziane, così come ricorda Francesco Frangi (in Da Caravaggio a Ceruti. La scena di genere e l’immaginario dei Pitocchi nella pittura italiana, 1998), si fa infatti spesso riferimento alla presenza di svariati dipinti di Ghidoni raffiguranti singole figure di pitocchi, le cui iconografie risultano essere riconducibili ai modelli di Bellotti e Monsù Bernardo; in particolare, Monsù Bernardo, danese allievo di Rembrandt attivo principalmente tra Venezia e Bergamo, costituisce un punto di riferimento fondamentale per il lavoro dell’artista.
Di particolare interesse sono anche le cornici dei dipinti, certamente coeve e dal grande valore artistico. Queste presentano una sagoma a cassetta e una fascia decorata con fiori e motivi astratti a rilievo. Queste risultano eseguite in area veneta nella prima metà del XVII secolo (F. Sabatelli, La cornice italiana dal Rinascimento al Neoclassico, 1992, pp. 194-195): ciò appare assolutamente coerente con l’attribuzione dei dipinti a Matteo Ghidoni, attivo quasi unicamente in Veneto.
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