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Santi di Tito
Ritratto di Nobildonna
1560

Informazioni sull’articolo

Santi di Tito Ritratto di Nobildonna Olio su tavola, Sec. XVI, cm 74x61; con cornice 116x100x9 Con il procedere degli studi su Santi di Tito, del quale è stata recentemente precisata la nascita fiorentina , si viene sempre più definendo come non solo una delle personalità più interessanti della scena artistica fiorentina, ma anche come il più interessante ritrattista cittadino della seconda metà del Cinquecento. L'attribuzione di questo ritratto al pittore, che nell'impresa dello Studiolo di Francesco I fu uno dei maggiori innovatori fra i giovani riuniti da Vasari e Borghini, appare subito evidente per l'inconfondibile disegno ovale e fermo del volto, reso con un incarnato compatto dai toni rosati che si accende di notazioni naturalistiche epidermiche ma anche di una puntuale figurazione degli elementi decorativi dell'abito e dell'acconciatura. Sempre coerente con i modi pittorici di Santi è poi la pittura compatta con la quale vengono definiti i piani semplificati del volto delle donne, che conservano una notazione di luce e di naturale sensibilità in linea con i dettami controriformati dei quali il pittore fu uno dei più fedeli osservanti nella scena fiorentina. Sempre tipica di Santi di Tito è poi la ferma e volumetrica rappresentazione del torso e dell'abito definito nei piccoli intagli della stoffa ma allo stesso tempo semplificato nei volumi delle maniche e del busto. Ancora di Santi ci sembra la notazione luministica con la quale è rilevato il disegno dell'abito attraverso stesure compatte ma sottili e trasparenti, oppure è resa la gorgiera bianca che aggiunge una luce netta all'intero dipinto. Una simile scelta pittorica appare nel Ritratto di Guido Guardi coi figli, esposto alla mostra Il Cinquecento a Firenze, (Palazzo Strozzi, 21 settembre 2017 - 21 gennaio 2018, n. IV. 5, pp. 156-157), dove, pur in un ritratto maschile, I Santi di Tito usa la medesima cifra formale nella resa dei volti e delle gorgiere. Pur nell'attenzione alle caratteristiche fisionomiche, I Santi di Tito conserva, infatti, una cifra disegnativa sempre evidente e riconoscibile pur col passare degli anni, un carattere stilistico che sostiene, con volumi saldi, ogni sua differente prova pittorica. Ne sono un esempio dipinti quali il Ritratto di donna con Figlia, già in collezione Koelliker2, oppure il Ritratto di Lucrezia (Emilia) e Sinibaldo di Niccol Gaddi3, tutti databili agli anni settanta del Cinquecento proprio per la definizione stereometrica delle forme. Col passare degli anni, invece, tale carattere di ascendenza bronzinesca sembra cedere sempre più in favore di una pittura più morbida e sensibile, chiamata a raggiungere esiti di naturalezza sempre maggiore. Dipinto emblematico per seguire tale percorso rimane il già citato Ritratto di Guido Guardi con i figli , dove I Santi di Tito ha effigiato il capofamiglia subito dopo il suo ritorno da Roma, fra il 1564 e il 1568, al tempo in cui il Guardi commissionò al pittore anche una pala con una Natività per la cappella di famiglia a San Giuseppe. L'uomo, seduto su uno scranno, sembra rimandare per la posa arcaizzante alla ritrattistica di primo Cinquecento, alla quale I Santi di Tito s'ispira anche per le pieghe frante ma scultoree dell'abito. Sulla stessa tavola, probabilmente verso la fine degli anni settanta del Cinquecento, il pittore venne chiamato ad aggiungere gli effetti di figli, quando probabilmente l'opera era già in cornice, e lo fece con una pittura più svolta e libera, in modo da raggiungere effetti naturalistici di maggiore sensibilità. Anche nel Ritratto di donna in esame, i volumi saldi e potenti della figura spiccano sul fondo monocromo della parete con un'evidenza che farebbe pensare alle figure eseguite dalla fine degli anni Settanta del Cinquecento, al pari, appunto dei due figli di Guido Guardi. Nato a Firenze nel 1536, I Santi di Tito si form A prima da Bastiano da Montecarlo per passare poi dal Bronzino, del quale conservava la preferenza per volumi luminosi e torniti, a cui si aggiunge un'attenzione per la chiarezza compositiva e il naturalismo richiesti dai dettami della Controriforma, che lo portarono a guardare allo stile di Scipione Pulzone, e degli Zuccari, conosciuti sia a Firenze, sia durante un soggiorno romano. Riguardo alla formazione del pittore, Raffaello Borghini ricorda come egli proseguì poi i suoi studi presso Baccio Bandinelli, dal quale "ebbe molti sconforti nelle cose del disegno". L'abilità di I Santi di Tito come disegnatore è ricordata anche dal Baldinucci che riporta tuttavia alcuni commenti invidiosi di altri artisti di fronte alla sua disinvolta sicurezza, che appare evidente anche nella "facilità" con la quale è stato eseguito il complesso partito decorativo di questo dipinto, risolto con velocità di pennellata e sottile armonia cromatica. Dopo la formazione fiorentina, I Santi di Tito si trasferì a Roma, dove rimase dal 1560 al 1564: lavorava a contatto con gli Zuccari, affresc la cappella di Palazzo Salviati e, in Vaticano, nel Casino di Pio IV e nel salone del Belvedere. Fu probabilmente a Roma che I Santi aggiunse complessità ai caratteri di naturalismo e di quieta semplicità che saranno fondamentali per la sua pittura e costituiranno il suo più grande apporto alla scena fiorentina, dove rientreranno nel 1564 per partecipare alla realizzazione degli apparati per le esequie di Michelangelo. Tuttavia, il luogo dove la sua pittura appare in tutta la prepotente novità rispetto ai caratteri espressivi della scuola vasariana sono i tre dipinti eseguiti intorno al 1572 per lo Studiolo di Francesco I de' Medici a Palazzo Vecchio. Ai fini di tale svolgimento era forse stato fondamentale un viaggio a Venezia avvenuto all'inizio degli anni Settanta, dove poté conoscere la pittura naturalistica di Tiziano e di Tintoretto, che lo spinse a rinnovare gli schemi della "maniera moderna" fiorentina, pur conservandone per intero la struttura disegnativa. Per la decorazione dello Studiolo egli dipinse La raccolta dell'ambra, Ercole e Jole, e Il passaggio del Mar Rosso. In tutte e tre le opere un'attenzione alle espressioni dei sentimenti lontana dalle codificazioni manieriste, ed un naturalismo dei volti dei gesti e dei toni, già volge verso esiti che preludono alla sintesi di astrazione e naturalezza di questo ritratto, che sarà comunque da riferirsi ad una data più vicina alla fine del decennio. Sempre riguardo al dipinto che qui presentiamo sarà utile rileggere le testimonianze di Raffaello Borghini, ne Il Riposo, e di Filippo Baldinucci, nelle Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua, che sono concordi riguardo l'abilità di Santi di Tito come ritrattista. Nel 1584 Borghini ricorda che a Firenze, di mano di Santi di Tito "vi sono ritratti di naturale molti pittori e scultori"; poi annota anche che "ha fatto Santi molti ritratti, come di papa Pio quarto, del Signor D. A. Ernando Cardinale de' Medici, del Signor D. Pietro, della Signora Isabella de' Medici, del Signor Paolo Orsino, di Pier Vettori per le lettere così famose e di molti altri che troppo a lungo sarei a raccontarli" . A giudicare dal livello delle commissioni, I Santi di Tito appare dunque già al Borghini, che scrive prima della morte dell'artista, uno dei più importanti ritrattisti fiorentini del momento, e questo ruolo gli derivava proprio dalla sua abilità pittorica e dal suo interesse per il dato naturalistico unito alla sapienza del disegno di tradizione fiorentina, che lo poneva come naturale erede, al pari di Allori, della via aperta dal Bronzino. Tuttavia è soprattutto Baldinucci a dedicare lunghe pagine ai ritratti dipinti dal Titi, ancora presenti alla fine del Seicento a Firenze, la maggior parte dei quali sono purtroppo andati perduti. Vale la pena di trascrivere alcuni passaggi del Baldinucci: I Santi di Tito "fu portato dal genio, non meno che dal desiderio di guadagno, a fare ritratti, come quelli che possedendo una istraordinaria sicurezza del disegno, gli conduce con gran facilità e somigliantissimi dal vivo, e quello che è più, anche dal morto". Fra i ritratti migliori conservati nelle case fiorentine, vi è quello "fatto da lui di Caterina di Camillo dei Pazzi, nobile fiorentina, che poi vestì l'abito religioso dell'ordine carmelitano, mutando l'antico nome in quello di Maria Maddalena, crebbe tanto in santità, che meritatamente oggi viene ascritta al catalogo de' Santi". Baldinucci descrive poi, fra i ritratti, "che uno e bellissimo d'una vecchia in abito vedovile, possiede il marchese Francesco Riccardi", soggetto che potrebbe accordarsi proprio con quello del dipinto in esame. Ancora lo storico ricorda infine "Ippolito de' Ricci avvocato del collegio de' Nobili, gentiluomo, che per suo divertimento molto ha operato in pittura, conserva nella sua casa da Santa Croce alcuni ritratti d'antichi suoi ascendenti e d'altri stati loro congiunti, fra' quali è quello di Niccol Machiavelli, già segretario della Repubblica fiorentina, a cui per parer vivo altro non manca che la voce; un altro ritratto di costui, con altri puri di quella casa, tutti di mano di Santi, conservano gli eredi di Pierfrancesco della stessa nobil famiglia de' Ricci. Il senatore Ruberto Pandolfini avvocato puro del collegio de' Nobili, gentiluomo di somma integrità, prudenza e dottrina, ha nel suo palazzo di via S. Gallo architettato dal gran Raffaello da Urbino, tre ritratti di mano dello stesso Santi, di persone di casa Tornabuoni stati suoi ascendenti da canto di donne". Per finire, questa breve disamina delle fonti sulla ritrattistica di I Santi di Tito, oltre agli effigi di cavalieri e nobili, Baldinucci ricorda anche come "egli fu ordinario adoperato a far ritratti de' serenissimi principi, e dovendo una volta far quello di madama Cristina di Lorena, allora sposa del granduca Ferdinando I, la quale aborriva il tedio di starsene ferma naturale, trova modo di sbrigarsi in mezzora, nel qual tempo (tanta era la franchezza del suo pennello) condusse un ritratto bellissimo che si merita la lode del granduca e di tutta la corte" . Stando a Baldinucci, anche alla fine del Seicento, nonostante la distanza dagli esiti barocchi della pittura fiorentina, i ritratti di Santi di Tito erano sempre tenuti di gran conto per la loro somiglianza e vivezza, tanto che era ancora fresca la memoria del plauso conquistato dall'artista di fronte alla corte medicea per la sua bravura e velocità. // Con il progredire degli studi su Santi di Tito, la cui nascita fiorentina è stata recentemente chiarita, viene sempre più definito non solo come una delle personalità più interessanti della scena artistica fiorentina, ma anche come il ritrattista cittadino più interessante della seconda metà del XVI secolo. . L'attribuzione di questo ritratto al pittore, che nell'impresa dello Studiolo di Francesco I fu uno dei maggiori innovatori tra i giovani riuniti da Vasari e Borghini, è subito evidente per l'inconfondibile disegno ovale e deciso del volto, reso con un incarnato compatto dai toni rosati che si accende di notazioni epidermiche naturalistiche ma anche di una precisa figurazione degli elementi decorativi dell'abito e dell'acconciatura. Coerente con i modi pittorici di Santi è anche la compattezza pittorica con cui vengono definiti i piani semplificati del volto della donna, che conservano una notazione di luce e sensibilità naturale in linea con i dettami controriformati di cui il pittore era uno dei più fedeli osservatori nella scena fiorentina. Tipica di I Santi di Tito è anche la rappresentazione ferma e volumetrica del busto e dell'abito, definita nei piccoli intagli del tessuto ma allo stesso tempo semplificata nei volumi delle maniche e del busto. La notazione luministica con cui il disegno dell'abito viene rilevato attraverso bozze compatte ma sottili e trasparenti, oppure la gorgiera bianca è fatta di santi, che aggiungono una luce chiara all'intero dipinto. Una scelta pittorica simile appare nel Ritratto di Guido Guardi con i figli, esposto alla mostra Il Cinquecento a Firenze, (Palazzo Strozzi, 21 settembre 2017 - 21 gennaio 2018, n. IV. 5, pp. 156-157), dove, anche se si tratta di un ritratto maschile, I Santi di Tito utilizza la stessa figura formale nella resa dei volti e delle gorgiere. Pur prestando attenzione alle caratteristiche fisionomiche, Santi di Tito conserva, infatti, un disegno sempre evidente e riconoscibile anche con il passare degli anni, un carattere stilistico che sostiene, con volumi decisi, ognuna delle sue diverse prove pittoriche. Ne sono un esempio dipinti come il Ritratto di donna con figlia, già nella collezione Koelliker2 , o il Ritratto di Lucrezia (Emilia) e Sinibaldo di Niccol Gaddi3, tutti databili agli anni '70 del XVII secolo proprio per la definizione stereometrica della forma. Con il passare degli anni, però, questo carattere di ascendenza bronzista sembra cedere sempre di più in favore di una pittura più morbida e sensibile, chiamata a raggiungere risultati di sempre maggiore naturalezza. Un dipinto emblematico per seguire questo percorso rimane il già citato Ritratto di Guido Guardi con i suoi figli, dove Santi di Tito ritrasse il capofamiglia subito dopo il suo ritorno da Roma, tra il 1564 e il 1568, nel momento in cui Guardi commissionò al pittore anche una pala d'altare con una Natività per la cappella di famiglia in San Giuseppe. L'uomo, seduto su una panchina, sembra rimandare per la posa arcaizzante alla ritrattistica del primo Cinquecento, a cui I Santi di Tito si ispira anche per le pieghe scomposte ma scultoree dell'abito. Sulla stessa tavola, probabilmente verso la fine degli anni Settanta del Cinquecento, il pittore fu chiamato ad aggiungere le effigi dei bambini, quando l'opera era probabilmente già in cornice, e lo fece con una pittura più tornita e libera, al fine di ottenere effetti naturalistici di maggiore sensibilità. Anche nel Ritratto di donna in questione, i volumi solidi e possenti della figura si stagliano sullo sfondo monocromo della parete con un'evidenza che farebbe pensare alle figure eseguite a partire dalla fine degli anni Settanta del Cinquecento, come i due figli di Guido Guardi. Nato a Firenze nel 1536, Santi di Tito si forma prima presso Bastiano da Montecarlo e poi presso il Bronzino, di cui conserva la predilezione per i volumi luminosi e torniti, a cui aggiunge un'attenzione alla chiarezza compositiva e al naturalismo richiesti dai dettami della Controriforma, che lo portano a guardare allo stile di Scipione Pulzone e degli Zuccari, conosciuti sia a Firenze che durante un soggiorno a Roma. Per quanto riguarda la formazione del pittore, Raffaello Borghini ricorda che poi continuò gli studi con Baccio Bandinelli, dal quale "ebbe molti avvertimenti in materia di disegno". L'abilità di I Santi di Tito come disegnatore è ricordata anche da Baldinucci che tuttavia riporta alcuni commenti invidiosi da parte di altri artisti di fronte alla sua disinvolta sicurezza, evidente anche nella "facilità" con cui viene eseguita la complessa parte decorativa di questo dipinto. risolta con velocità di pennellata e sottile armonia cromatica. Dopo la formazione fiorentina, Santi di Tito si trasferì a Roma, dove rimase dal 1560 al 1564: lavorò a contatto con gli Zuccari, affrescò la cappella di Palazzo Salviati e, in Vaticano, il Casino di Pio IV e la sala del Belvedere. Fu probabilmente a Roma che Santi aggiunse complessità ai caratteri di naturalismo e tranquilla semplicità che saranno fondamentali per la sua pittura e costituiranno il suo più grande contributo alla scena fiorentina, dove tornò nel 1564 per partecipare alla costruzione dell'apparato per il funerale di Michelangelo. . Tuttavia, il luogo in cui la sua pittura appare in tutta la sua travolgente novità rispetto ai caratteri espressivi della scuola vasariana sono i tre dipinti eseguiti intorno al 1572 per lo Studiolo di Francesco I de' Medici in Palazzo Vecchio. Ai fini di questo sviluppo, fu forse fondamentale un viaggio a Venezia all'inizio degli anni Settanta, dove ebbe modo di conoscere la pittura naturalistica di Tiziano e Tintoretto, che lo spinse a rinnovare gli schemi della "maniera moderna" fiorentina, pur conservandoli per l'intera struttura progettuale. Per la decorazione dello Studiolo dipinse La collezione d'ambra, Ercole e Jole e Il passaggio del Mar Rosso. In tutte e tre le opere un'attenzione alle espressioni dei sentimenti lontana dalle codificazioni manieristiche e un naturalismo dei volti, dei gesti e dei toni, volge già verso risultati che preludono alla sintesi di astrazione e naturalezza di questo ritratto, a cui comunque si farà riferimento in una data più vicina alla fine del decennio. Sempre per quanto riguarda il dipinto che presentiamo qui, sarà utile rileggere le testimonianze di Raffaello Borghini, ne Il Riposo, e di Filippo Baldinucci, nelle Notizie dei professori di disegno di Cimabue, che concordano sull'abilità di Santi di Tito come ritrattista. Nel 1584 Borghini ricorda che a Firenze, per mano di Santi di Tito "vi sono ritratti dal vero di molti pittori e scultori"; poi annota anche che "fece molti ritratti di Santi, come di Papa Pio quarto, del Sig. D. Ernando Cardinale de' Medici, del signor D. Pietro, della signora Isabella de' Medici, del signor Paolo Orsino, di Pier Vettori per le lettere così famose e di molti altri che troppo a lungo starei a raccontare". A giudicare dal livello delle committenze, I Santi di Tito appare quindi già al Borghini, che scrive prima della morte dell'artista, uno dei più importanti ritrattisti fiorentini del momento, e questo ruolo derivava dalla sua abilità pittorica e dal suo interesse per il dato naturalistico unito alla sapienza del disegno della tradizione fiorentina, che lo poneva come l'erede naturale, al pari di Allori, della strada aperta da Bronzino. Tuttavia, è soprattutto Baldinucci a dedicare lunghe pagine ai ritratti dipinti da Titi, ancora presenti alla fine del Seicento a Firenze, la maggior parte dei quali è purtroppo andata perduta. Vale la pena di trascrivere alcuni passaggi di Baldinucci: I Santi di Tito "fu portato dal genio, non meno che dal desiderio di guadagno, a fare ritratti, come quelli che, possedendo una straordinaria sicurezza di disegno, li conducevano con grande facilità e molto simili ai vivi, e per di più anche ai morti". Tra i migliori ritratti conservati nelle case fiorentine, c'è quello "fatto da lui a Caterina di Camillo dei Pazzi, nobile fiorentina, che poi vestita dell'abito religioso dell'ordine carmelitano, cambiando l'antico nome in quello di Maria Maddalena, crebbe talmente in santità che oggi è meritatamente ascritta al catalogo dei santi". Baldinucci descrive poi, tra i ritratti, "che uno molto bello di una vecchia in abito vedovile possiede il marchese Francesco Riccardi", un soggetto che potrebbe concordare proprio con quello del dipinto in questione. 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Infine, da questa breve disamina delle fonti sulla ritrattistica di I Santi di Tito, oltre che sulle effigi di cavalieri e nobili, Baldinucci ricorda anche come "era ordinariamente addetto a fare i ritratti dei serenissimi principi, e avendo una volta dovuto fare quello di Madama Cristina di Lorena, allora moglie del Granduca Ferdinando I, che aborriva il tedio di stare ferma naturalmente, trovò il modo di sbrigarsi in mezz'ora, nel qual tempo (tale era la franchezza del suo pennello) fece un bellissimo ritratto che meritò le lodi del Granduca e di tutta la corte". Secondo Baldinucci, anche alla fine del Seicento, nonostante la distanza dagli esiti barocchi della pittura fiorentina, i ritratti di I Santi di Tito furono sempre tenuti in alta considerazione per la loro somiglianza e vivacità, tanto che si ricorda l'applauso conquistato dall'artista davanti alla corte medicea per la sua abilità e velocità.

Creatore:
Santi di Tito (1536 - 1603, Italiano)
Anno di creazione:
1560
Dimensioni:
Altezza: 116 cm (45,67 in)Larghezza: 100 cm (39,38 in)Profondità: 9 cm (3,55 in)
Più edizioni e dimensioni:
74x61Prezzo: 47.072 USD
Tecnica:
Olio,Pannello
Movimento e stile:
Scuola italiana
Periodo:
XVI secolo
Condizioni:
Località della galleria:
Balerna, CH
Numero di riferimento:
1stDibs: LU2122210894802

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